Nasce il Museo del ninfeo, la Domus Aurea di Caligola

Per chi veniva dal centro dell’Urbe, nulla si profilava all’orizzonte. Apparentemente solo vegetazione, piante, boschi. Ma avvicinandosi l’occhio svelava l’inganno e la verità: pareti dipinte all’esterno e all’interno lo sfarzo di una piazza scintillante di marmi policromi, pareti affrescate e un rincorrersi di statuaria, fontane e giochi d’acqua. Era una delle tante sorprese di quel luogo delle meraviglie passato alla Storia, e alle memorie degli antichi da Tacito a Tirone, come gli Horti Lamiani, chiamati così per il loro primo proprietario Lucio Elio Lamia che nel 33 d.C lasciò la sua lussuosa residenza sull’Esquilino in eredità al demanio imperiale. Un luogo mitico, giardino degli dei e paradiso degli imperatori, amatissimo in particolare da Caligola che ne fece una Domus Aurea ante litteram, curandone personalmente ogni dettaglio, ma che rischiava di rimanere ancora “sepolta” sotto i palazzi della città di oggi. Dopo otto anni di scavi, 30 mila metri cubi di stratigrafia, 35 archeologi e 8 restauratori impiegati e un laboratorio di ricerca dedicato, la Soprintendenza speciale di Roma e l’Enpam – Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Medici e degli Odontoiatri oggi lo riportano alla luce con la nascita del Museo del Ninfeo, situato all’interno della sede dell’Ente, ma aperto al pubblico con due open day il 30 e il 31 ottobre e poi stabilmente ogni sabato e domenica dal 6 novembre. “Abbiamo trovato questo patrimonio nel costruire la nostra nuova sede – racconta il presidente dell’Enpam, Alberto Oliveti – Finalmente tutti potranno vederla. Ci è sembrato giusto dedicare il Ninfeo a tutti i 363 medici caduti nell’esercizio della loro professione durante l’epidemia”. “La nascita di questo museo è un vero segno di ripresa – commenta la Soprintendente Daniela Porro – L’Esquilino, all’inizio dell’età imperiale, divenne scenario privilegiato delle ville suburbane delle famiglie dell’alta aristocrazia romana. Da qui, se necessario, in 10 minuti di carro si poteva tornare al Foro. Era un microcosmo di ozio dove gli imperatori amavano replicare la vita della città. L’eccezionalità è poter mostrare tutto questo e anche i reperti proprio lì dove sono stati rinvenuti, nel loro contesto originario”. “Questo – prosegue la direttrice scientifica del progetto, Mirella Serlorenzi – era uno spazio aperto, pieno di fiori e piante, animali dove esibire il meglio della cultura artistica ed architettonica di Roma”. Ecco allora la grande piazza scoperta che ricorda il Foro, ma anche i resti di animali feroci, come un osso di leone e un dente d’orso, probabilmente utilizzati per godere di Giochi come quelli che si tenevano al Colosseo. Qui, in verità, aveva già scavato, all’inizio del secolo scorso, l’archeologo Rodolfo Lanciani. Ma mai in maniera così approfondita. “Noi poi abbiamo aggiunto un edificio in più”, spiega la Serlorenzi. “Milioni i reperti catalogati e studiati”, oltre mille quelli esposti, che vanno dal IV a.C. al IX d.C., quando l’area aveva perso lo sfarzo di un tempo, ma, ricostruisce la Porro, “probabilmente ancora esisteva la latrina pubblica, come testimonia una scritta in alfabeto runico, lasciata da alcuni pellegrini, probabilmente diretti a Santa Maria Maggiore o Santa Croce”. Tra le sorprese tornate alla luce, una monumentale scala ricurva in marmo e un impianto idrico con il nome dell’imperatore Claudio (successore di Caligola) impresso sui tubi di piombo. E poi preziosi vetri colorati delle finestre, ceramiche, semi di piante esotiche in arrivo da Egitto e Asia minore, ostriche, conchiglie, e anche un piccolo biberon in terracotta a forma di maialino. Persino, caso unico forse, le ciotoline usate dai pittori per realizzare un affresco, oggi pazientemente ricostruito come un puzzle da milioni di pezzi