La memoria collettiva, da Belpaese a carrambata!

Calimero, calma e gesso, Capitan Findus, Capitan Trinchetto, Carmencita, chiamami Peroni, Gigante amico, Gringo, gruppo vacanze Piemonte, Merendero, moplen, Negronetto… ciascuna di queste espressioni ricorda a quelli che i ragazzi di oggi definirebbero boomer, ossia più o meno i loro genitori, il tempo di Carosello, della pubblicità raccontata come una serie tv. Sono diventate queste espressioni parte di un percorso fatto di evocazioni, uno tra i tanti possibili di quello che un è un dizionario della memoria collettiva. Dopo 18 anni è uscito da Zanichelli aggiornato (e smart con app e download) quello speciale dizionario in cui viene fuori un ritratto della lingua italiana che più viva non si potrebbe. Sono ‘Parole per ricordare’, un segno incredibile di come la lingua sia un luogo in cui ogni generazione lascia tracce e può ritrovare se stessa.
    Queste parole raccolte da Massimo Castoldi e Ugo Salvi compongono un libro nel quale riconoscersi, un aiuto per condividere la vitalità della lingua italiana e dei suoi usi figurati e per tutti un pretesto per scoprirne la storia e le continue trasformazioni. Passato e presente si incontrano continuamente nella nostra lingua, espressione culturale che è potenzialmente in continuo divenire: parole con una storia antica collettiva, diventate figure retoriche per antonomasia come Cincinnato, evocative come La Dolce Vita, allusive come collezione di farfalle o amico del Giaguaro. Molto spesso c’è la pubblicità di mezzo o trasmissioni televisive (pensiamo a carrambata! da Carramba che sorpresa di Raffaella Carrà) o film (Il deserto dei tartari ad esempio). C’è sempre una storia dietro ogni parola, sedimentata, trasformata, modellata dal tempo. A volte sono segni di un percorso arrivato fino a noi da lontano. Bellissimo quello che nell’anno di Dante, i 700 dalla morte, arriva da lui fino a noi: parole, frasi, espressioni anche di uso comune e corrente con un padre nobile. Eccone una parte: Belpaese (nell’invettiva contro Pisa del XXXIII canto dell’Inferno: Il bel paese là dove ‘l sì suona), gran rifiuto (rinuncia ad assumere una carica o una responsabilità importante, con conseguenze rilevanti sugli eventi successivi).
    L’espressione deriva dai versi danteschi riferiti a papa Celestino V che rinunciò al pontificato nel 1294 ‘vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto (Inf.
    III, vv. 59-60)’, miglior vita (la morte, nell’espressione eufemistica e ormai stereotipata di passare a miglior vita nel significato di morire). Fu Dante a usarla e renderla popolare con i versi del XXIII canto del Purgatorio, quando Dante stesso si rivolge al poeta Forese Donati (1250ca-1296) dicendogli: Forese, da quel dì / nel qual mutasti mondo a miglior vita, / cinqu’anni non son vòlti infino a qui (vv. 76-78)), stare fresco (espressione di senso ironico che significa non illudersi, non sperare nemmeno, oppure prepararsi a una punizione. Dante descrive con scherno la pena di Buoso da Duera o Dovara o Dovera, signore di Cremona nel XIII secolo, che avrebbe tradito le truppe imperiali di Manfredi di Svevia prima della storica sconfitta di Benevento, dove Manfredi fu ucciso.
    Buoso è posto tra i traditori nello stagno gelato del Cocito (Inf. XXXII, vv. 115-117): “Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera / là dove i peccatori stanno freschi”).
    Ci sono nel dizionario anche alcuni stereotipi, che – sottolineano Castoldi e Salvi – segnano e hanno segnato il linguaggio popolare, e che sono stati spesso oggetto di critica e messi al bando, perché ritenuti offensivi o inadatti. “Noi li abbiamo registrati, perché appartengono alla nostra storia linguistica e devono essere conosciuti, ma come tali qualificati e ragionevolmente limitati nell’uso. Spesso i cambiamenti sociali e l’evoluzione della sensibilità delle persone ai temi rilevanti del vivere civile travolgono la solidità di definizioni nate in diversi contesti e le mettono in discussione”. Specie in questi ultimi anni infatti la nostra sensibilità è profondamente trasformata e certe parole non le accettiamo più perlomeno con quella potenza negativa originaria.
    Tra i molti esempi mongoloide: era il termine spregiativo col quale si indicava una persona affetta dalla sindrome di Down che genera una fisionomia con occhi a mandorla, assimilabile a quella dei Mongoli dell’Asia centrale. Oggi è tornato in uso dai ragazzini che non ne conoscono l’origine, diffuso come spregiativo stereotipo linguistico, per indicare una persona poco intelligente.